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1567-1571. Massimiliano II d'Asburgo concede, con la Dieta di Torda, la libertà religiosa nell'Impero.

Con l'Unione di Lublino nasce la Confederazione Polacco-Lituana, una potenza temibile con la quale la Russia, recentemente ascesa al ruolo di grande potenza sotto lo scettro del primo Zar, Ivan IV, ed il Sacro Romano Impero, dovranno fare i conti.

Una forza spagnola, sotto il comando del capitano Juan Pardo, fonda l'insediamento di Forte San Juan nella terra dei nativi americani Joara. Il forte è il primo insediamento europeo nella Carolina del Nord.
Diego de Losada fonda in Venezuela la città di Santiago de León de Caracas.

Nel 1567 scoppia in Francia la seconda guerra di religione, quando il Principe di Condé e Gaspard de Coligny falliscono nel tentativo di catturare il re Carlo IX e sua madre a Meaux. Gli ugonotti catturano diverse città tra le quali New Orleans e marciano su Parigi.
Il 10 novembre gli ugonotti danno battaglia ai realisti a Saint-Denis: Anne de Montmorency ed i suoi 16.000 vengono sconfitti da 3.500 ugonotti del Principe di Condé.
Filippo II approfitta della situazione per intervenire contro le colonie francesi in Nord America, con il pretesto di aiutare Carlo IX a liberare i cattolici dalla "pestilenza" ugonotta.
Battaglia di Jarnac (1569): le truppe realiste sotto il maresciallo Gaspard de Tavannes sorprendono e sconfiggono gli ugonotti del Principe di Condé, che viene catturato e ucciso.
Una parte considerevole dell'esercito ugonotto riesce a fuggire sotto Gaspard de Coligny che, raggiunte dalle forze del Principe Enrico di Navarra, passano al contrattacco ed assediano Poitiers, mentre ad Orthez le forze di ugonotte di Gabriel de Montgomery sbaragliano i realisti cattolici del generale Terride in Navarra.
Fino a dicembre del 1569 i cattolici subiscono una batosta dopo l'altra, quando a Moncountour le forze realiste del Maresciallo di Francia Tavannaes e del Duca d'Anjou riescono ad infliggere una dura sconfitta al Coligny, liberando Poitiers dall'assedio.
L'Armada del Norte, partita dal Vicereame della Nuova Spagna, sottomette le città ed i forti coloniali francesi di Louisiana, Georgia, Sud Carolina e Florida, molti dei quali finiti in mani ugonotte. La presenza francese nell'America Settentrionale è praticamente ridotta al solo Canada: Filippo II intende estendere il dominio spagnolo su tutto il blocco continentale.

(l'assenza dell'Inghilterra e dell'Olanda e la debolezza della Francia, permettono in questa TL alla Spagna di avere rotte sicure per le ricchezze che dal Nuovo Mondo affluiscono ancor più copiose in direzione dell'Europa)

Nel 1570 viene siglata la Pace di Saint-Germain, che conclude la terza guerra religiosa in Francia. Agli ugonotti viene promessa la libertà di culto e l'autonomia politica e Filippo II riesce ad ottenere dalla Francia il controllo della Florida, ma deve rinunciare all'occupazione della Louisiana.

Viene firmata una tregua tra Russia, Svezia, Danimarca-Norvegia e Polonia-Lituania, impegnate nella guerra di Livonia, e la Pace di Stettino tra Danimarca-Norvegia e Svezia. Con questi trattati, mediati da Massimiliano II, La Danimarca-Norvegia ottiene il ripristino dell'Unione di Kalmar con la Svezia che, a sua volta, sotto pagamento di un indennizzo cede i territori dell'Unione sul Baltico orientale alla Polonia-Lituania.
L'accordo lascia profondamente indispettito Ivan IV, che rimane a bocca asciutta.

Il nuovo Sultano, Selim II, salito al trono nel 1566, durante la campagna d'Ungheria della guerra ottomano-asburgica, aveva, tra i primi atti, deposto l'ultimo Duca dell'Arcipelago, Jacopo IV Crispo, vassallo della Repubblica di Venezia.
Selim II, giovane ed ambizioso ma con un evidente complesso di inferiorità verso il padre, Solimano il Magnifico, affidò il controllo degli affari di stato al Gran Visir Sokollu Mehmet Paşa, il quale decise di rivolgere le attenzioni dell'Impero Ottomano su Cipro, il vasto e ricco possedimento veneziano situato a pochi chilometri dalle sue coste, che ben si prestava a garantire la via marittima per il pellegrinaggio alla Mecca.
Venezia, in pace armata coi Turchi sin dal 1540, al termine della terza guerra turco-veneziana, tentava di non dare pretesto a Selim per la guerra, ma il 13 gennaio 1570 il bailo di Costantinopoli, Antonio Barbaro, informò la Serenissima Signoria di essere venuto a sapere delle bellicose intenzioni del Sultano. In precedenza si era molto discusso (sia a Venezia che a Costantinopoli) di una possibile spedizione ottomana contro Granada, in cui la minoranza islamica, insorta nel 1568, stava subendo la vendetta spagnola. La Spagna era stata però informata dalle sue spie di questi maneggi, e ne aveva preso nota. Il 28 marzo giunse a Venezia l'ambasciatore di Selim, recando la richiesta di consegna dell'isola, con il pretesto della sua passata appartenenza all'Islam oltre a quello, molto più concreto, che sull'isola andavano sovente a rifugiarsi corsari crisitiani che i veneziani non potevano o non volevano catturare e consegnare (come da accordi) alla giustizia ottomana. La risposta venne rigettata e iniziarono i preparativi di guerra: a Cipro, dove era luogotenente Nicolò Dandolo, venne inviato Giulio Savorgnan, esperto in fortificazioni, mentre venivano dispensati dal partecipare all'elezione del nuovo Doge tutti quei magistrati che avessero avuto parte ai preparativi militari. Girolamo Zane fu nominato Capitano Generale da Mar ed tutti i legni veneziani venne dato ordine di non lasciare i porti senza autorizzazione. Richieste di aiuto vennero inviate in tutta Europa, persino al Patriarca di Costantinopoli, perché istigasse con il suo clero la Morea alla rivolta, e allo Zar Ivan il Terribile perché attaccasse per via di terra.
Filippo II, che risentiva duramente della pessima figura fatta in precedenza agli occhi della cristianità, quando rifiutò di portare aiuto a Malta, questa volta mobilitò prontamente la propria flotta, affidata agli ammiragli spagnoli Don Álvaro de Bazán, marqués de Santa Cruz de Mudela, e Luis de Requesens y Zúñiga ed all'ammiraglio inglese Sir Francis Drake.
La flotta veneziana, forte di cinquanta galee, si mosse quindi su Zara per attendere la flotta promessa da Filippo II di Spagna. La lunga sosta consentì a flottiglie turchesche di saccheggiare i centri della Dalmazia, mentre la disciplina si allentava tra i veneziani e si diffondevano malattie. Lo Zane decise quindi di puntare su Corfù, giungendovi ad estate inoltrata.
Frattanto il 1 luglio i Turchi, al comando di Lala Mustafà Pascià, erano sbarcati in un'incursione a Limisso, seguita, il 3 luglio, dallo sbarco dell'armata principale, che non fu contrastata dai Veneziani (inizialmente in superiorità numerica, soprattutto in termini di cavalleria, ma carenti, a differenza dei turchi, di ufficiali esperti e truppe veterane). La popolazione cipriota veniva concentrata nella difesa di Nicosia e Famagosta, mentre i borghi e le campagne circostanti avevano ordine di trasportare tutti i viveri nelle fortezze e di distruggere gli abitati non portetti per non lasciare ai Turchi nulla di cui servirsi. Purtroppo l'ordine non fu eseguito quasi da nessuna parte. La popolazione cipriota era molto ostile ai venziani e alla nobiltà crociata (di origine italo-francese) cattolica che, con l'appoggio dei veneti, sfruttava in maniera coloniale gli abitanti greco-ortodossi. Per punire la cittadina di Lescara, che, con esempio pericoloso, si era prontamente sottomessa ai Turchi, i Veneziani inviarono un contingente da Nicosia che, nottetempo, distrusse il paese dandolo alle fiamme. I Turchi, dal canto loro, marciarono sulla capitale Nicosia ed iniziarono l'assedio e il bombardamento. La città, difesa da poche migliaia di soldati (1.000-1.500 mercenari italiani, circa 3.000 miliziani delle cernide, e circa 2.000 o poco più della milizia del popolo, ma maldisposta verso i veneziani e mal addestrata) era abitata da circa cinquantamila uomini, tra nativi e profughi, ed oltre alla fanteria si era rifugiata nella città anche buona parte della nobiltà cipriota (circa 500 famiglie) che era tenuta a combattere come cavalleria armando i propri bravi come cavalleggeri (circa 1.000-1.500 uomini) ed i cavalleggeri stradioti albanesi (400-600 uomini) che, assieme agli schiavoni croato-dalmati, costituiva i reparti d'élite delle truppe veneziane.
Il 15 agosto la guarnigione di Nicosia attaccò i Turchi in una sortita, ma il mancato intervento della cavalleria stradiota (per un errore di comando) non permise di rompere l'accerchiamento della capitale. Nella notte i Turchi irruppero in città ed il 16 agosto Nicosia era caduta. Numerose migliaia di abitanti furono deportati come schiavi. Seguirono in breve il suo destino anche Limisso e Larnaca, arresesi ai Turchi, così come si arresero molti castelli delle montagne a settentrione di Nicosia, ove non pochi nobili ciprioti accettarono la conversione all'islam per conservare i loro feudi come timurie.
Il 22 agosto la città di Famagosta, difesa da Marcantonio Bragadin e da Astorre Baglioni, venne assediata dall'imponente flotta capitanata da Lala Kara Mustafa Pascià.
Verso metà ottobre, il comandante ottomano Lala Mustafà invitò gentilmente il governatore della città Bragadin ad arrendersi, ma questi rifiutò. Vedendosi rifiutato il proprio invito, il generale turco s'irritò passando quindi a modi "meno cortesi": inviò l'ordine di resa immediata insieme alla testa mozzata e in fase di putrefazione di Niccolò Dandolo, governatore di Nicosia. Questo non spaventò né Bragadin né Baglioni, i quali, dopo aver fatto seppellire con le dovute onoranze funebri la testa del malcapitato, decisero di non arrendersi.
Famagosta aveva un ottimo sistema difensivo: si affacciava al mare ed era protetta da un muro di cinta dotato di quattro bastioni e a sua volta la cinta muraria era protetta da un ampio e profondo fossato. Questo però non poteva resistere all'enorme esercito ottomano, e per giunta in continuo incremento d'unità. A peggiorare la situazione dei veneziani s'aggiunse pure la scarsità di derrate alimentari in giacenza.
I primi attacchi vennero condotti dai giannizzeri, che però furono respinti dalla cavalleria veneziana. Vedendo la futilità di questo tipo d'attacco, Lala Mustafà decise di cambiare tattica e di far uso dell'artiglieria: con 25 cannoni e 4 basilischi iniziò a bombardare la città.
Data la loro colossale inferiorità numerica, gli assediati, dal canto loro, non potevano fare altro che resistere con la speranza che da un momento all'altro giungessero in loro aiuto rinforzi da Venezia. Nel frattempo Bragadin ed il comandante delle truppe Astorre Baglioni seppero sfruttare al meglio le poche truppe di cui disponevano ed il sistema fortificato sul quale si appoggiavano: riuscirono a resistere per tutto l'inverno, in grazia principalmente della loro batteria e delle incursioni a sorpresa che effettuavano al di fuori delle mura nell'accampamento degli assedianti.
Tutto questo non fece altro che irritare maggiormente il generale turco, il quale temeva un'altra rovinosa sconfitta come quella subita durante l'Assedio di Malta avvenuto cinque anni prima; un altro insuccesso militare e avrebbe compromesso la sua carriera e forse anche la sua stessa vita. Quindi chiese ulteriori rinforzi e dopo due mesi riuscì ad incrementare il proprio esercito assediante raggiungendo le 250.000 unità.
Il 26 gennaio 1571 giunsero a Famagosta 16 galee veneziane guidate da Marcantonio Querini, non per offrire supporto militare contro il nemico, bensì solo per rifornimento di viveri e di nuove truppe, circa 1.600 uomini: tra questi rimase a combattere anche il figlio di Gianantonio Querini, Marcantonio. Un successivo rifornimento di 800 fanti arrivò in marzo.
Agli inizi di aprile l'esercito turco riprese attivamente l'attività bellica; nel frattempo gli ottomani avevano posizionato nuova artiglieria, in tutto 85 cannoni più alcuni grossi basilischi di bronzo, e scavato nuove trincee.
Riprese quindi anche il bombardamento sulla città, la quale ormai era ridotta a un cumulo di macerie.
Verso fine luglio Mustafa Pascià, che aveva da poco perso il figlio in battaglia, ordinò il più pesante bombardamento dall'inizio dell'assedio. Ormai le mura non erano più in grado di resistere e di soldati, in gran parte feriti, erano rimasti appena settecento, incapaci di gestire la difesa.
Il Baglioni e il Colonnello Martinengo optarono per la resa. Marcantonio Bragadin prevedeva il tragico destino della città, ma decise di sottoscrivere lo stesso la resa.
Il 4 agosto Famagosta si arrese.
I capi veneziani ottennero da Mustafa Pascià la promessa di aver salva la loro vita e quella di tutti gli abitanti della città ancora in vita, considerando anche l'eventualità che essi decidessero di rimpatriare.
Ma Mustafa, venendo contro alle sue promesse, fece uccidere Baglioni appena firmata la resa. Il colonnello Martinengo, catturato, fu impiccato tre volte. La città venne lasciata in balia delle milizie ottomane, che seminarono la strage.
Marcantonio Bragadin venne catturato e gli furono mozzate le orecchie. Fatto girare per le vie della città per tredici giorni a cavallo di un mulo, sottoposto allo scherno dei soldati vincitori, il 17 agosto venne condotto, dopo altre innumerevoli sevizie ed umiliazioni, nella piazza principale e scuoiato vivo.
La sua pelle, ancora oggi conservata a Venezia, venne issata sulla nave ammiraglia e portata ad Istanbul.
L'eroica resistenza di Famagosta servì in ogni caso a far guadagnare tempo alle forze cristiane, tenendo impegnata l'immensa flotta ottomana mentre quella cristiana si stava ancora mobilitando.

Il 2 luglio intanto, Venezia, il Papato e la Spagna siglarono un'alleanza contro i Turchi passata alla Storia come Lega Santa.
La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V per soccorrere la città veneziana di Famagosta. In realtà il Pontefice voleva bloccare definitivamente l'invasione turca difendendo così l'intero Occidente cristiano. Il vessillo, benedetto dal Papa, giunse a Napoli il 14 agosto 1571, dove venne consegnato solennemente a Don Álvaro de Bazán, nella basilica di Santa Chiara.
La flotta della lega raggiunse in seguito la Sicilia, lasciando Messina dopo aver riunito una flotta composta da 50 navi veneziane tra galee, navi da carico, imbarcazioni minori e 6 potenti galeazze, 79 galee della Spagna (incluse le 29 provenienti dal Regno di Napoli, 7 dal Regno di Sicilia e le 3 di Malta, poiché erano feudi appartenenti all'impero spagnolo), 38 fregate inglesi (versione britannica delle galeotte mediterranee, progettate per andare sia a vela che a remi, erano più pesantemente armate delle loro cugine) sempre parte del contingente anglo-spagnolo, oltre a 3 galee del Ducato di Savoia, 12 galee del Granduca di Toscana noleggiate direttamente dal Papa e la flotta maltese degli Ospitalieri.
Giungendo in cerca di riparo dalla nebbia e dal forte vento nel porto di Viscando, non lontano dal luogo della battaglia di Azio, la flotta cristiana fu raggiunta dalla notizia della caduta di Famagosta e dell'orribile fine inflitta dai turchi a Marcantonio Bragadin.
Nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare verso Cefalonia, sostandovi brevemente, e giungendo, il 6 ottobre davanti al golfo di Patrasso, nella speranza di intercettare la potente flotta ottomana.

Il 7 ottobre, domenica, Don Álvaro de Bazán fece schierare le navi della lega in formazione serrata, deciso a dar battaglia: non più di 150 metri separavano le galee l'una dall'altra.
Il centro dello schieramento cristiano si componeva di 30 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 7 pontificie, 3 maltesi, 1 sabauda, per un totale di 56 galee e 2 galeazze. Lo comandava Don Álvaro de Bazán in persona. Con lui a bordo vi era anche Francesco Maria II della Rovere, figlio ed erede del Duca Guidobaldo II della Rovere nonché Capitano Generale degli oltre 2.000 soldati volontari provenienti dal Ducato d'Urbino. Affiancavano per ragioni di prestigio la galea Real spagnola la Capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano Generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la Capitana di Andrea Provana di Leinì, Capitano Generale piemontese, l'ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, Capitano Generale dei Cavalieri di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 43 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane e 2 pontificie, per un totale di 55 galee e 2 galeazze al comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano.
Il corno destro era invece composto di 20 galee e 2 galeazze veneziane, 35 fregate inglesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2 sabaude e 2 pontificie, per un totale di 32 galee, 35 fregate e 2 galeazze, al comando dell'inglese Sir Francis Drake sulla sua capitana.
Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 28 galee di Luis de Zúñiga y Requesens: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 pontificie, più 2 fregate inglesi.
L'avanguardia, guidata da Juan de Cardona, si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4 veneziane.
In totale la flotta cristiana si componeva di 6 galeazze, 179 galee, 38 fregate, 30 navi da carico, circa 14000 marinai, circa 44000 rematori, circa 28000 soldati e circa 2000 cannoni.

I Turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco, all'ala destra con 55 galee, il comandante supremo Mehmet Alì Pascià al centro con 90 galee conduceva la flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah; infine l'ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì, detto Occhialì, presiedeva all'ala sinistra con 90 galee.
Nelle retrovie schieravano 10 galee e 60 navi minori comandate da Amurat Dragut.

Don Álvaro de Bazán decise di lasciare isolate in avanti, due davanti ad ogni "corno", come esca le 6 potentissime galeazze veneziane, camuffate da navi da carico. Le galeazze davanti allo schieramento veneziano erano al comando degli ammiragli Antonio e Ambrogio Bragadin, che verosimilmente bramavano di vendicarsi per la brutalissima uccisione del loro fratello Marcantonio a Famagosta.

All'avvicinarsi degli ignari Turchi, queste scaricarono cannonate con una potenza di fuoco mai vista prima sul mare fino a quel giorno.
Le linee ottomane subiscono molte perdite ma Alì Pascià, vista l'imprendibilità di queste fortezze galleggianti, decise di superare di slancio le galeazze: queste navi erano inabbordabili da una normale galea, vista la loro notevole altezza. Di conseguenza Don Álvaro de Bazán aveva deciso di togliere un gran numero di spadaccini dalle galeazze e sostituirli con archibugieri, i quali crearono gravi danni alla flotta turca. Pertanto Alì, senza impegnarsi in battaglia con queste grosse navi, dopo averle superate decise di scagliare tutta la sua flotta in uno scontro frontale per, essendo in superiorità numerica, tentare di circondare la flotta nemica mirando unicamente all'abbordaggio della nave di Don Álvaro de Bazán e provare ad ucciderlo subito, demoralizzando così la flotta della Lega Cristiana.
Nell'ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario, ma il temperamento ed il carisma di Alì Pascià spinse i Turchi, in favore di vento, a scatenare la battaglia.

Per i cristiani gli scontri all'inizio coinvolsero pesantemente il veneziano Barbarigo, che era alla guida dell'ala sinistra e posizionato sotto costa: deve contrastare l'abile comandante Scirocco ed impedire che possa insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia, per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ha solo un parziale successo e lo scontro si accende subito violentemente. La stessa galea del Barbarigo diventa teatro di un'epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte. Ferito gravemente alla testa, Barbarigo muore e le retrovie devono correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la disfatta: ma grazie all'arrivo della riserva, guidata da Luis de Zúñiga y Requesens, le sorti si riequilibrano e così Scirocco venne catturato, ucciso ed immediatamente decapitato.

Al centro degli schieramenti, Alì Pascià cerca e trova la galea di Don Álvaro de Bazán, la cui cattura risolverebbe definitivamente lo scontro. Contemporaneamente altre galee impegnano il Venier e Marcantonio Colonna. Molti sono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galea Fiorenza dell'Ordine di Santo Stefano rimane quasi interamente ucciso in un assalto, eccetto il suo comandante Tommaso de' Medici con quindici uomini, che vengono catturati dai turchi.
Con un rumore assordante, i Turchi iniziarono l'assalto alle navi di Don Álvaro de Bazán suonando timpani, tamburi, flauti.
La flotta di Don Álvaro de Bazán era viceversa nel più assoluto silenzio, e quando i legni giunsero a tiro di cannone, i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Don Álvaro de Bazán innalzò lo Stendardo di Lepanto con l'immagine del Redentore Crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea ed i combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza plenaria concessa da Pio V per la crociata. Improvvisamente il vento cambiò direzione: le vele dei Turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono. Rincuorato da quello che sembrava un segno divino, Don Álvaro de Bazán puntò diritto contro la Sultana. Il Tercio di Sardegna si lanciò per primo l'arrembaggio alla nave turca, che diviene il campo di battaglia, i musulmani a poppa e i cristiani a prua.
Al terzo assalto i sardi sfondarono fino a poppa, ma Don Álvaro de Bazán venne ferito ad una gamba nel corso del combattimento ed i turchi approfittarono per respingere gli spagnoli.
Più volte le navi avanzarono e si ritirarono, Venier e Colonna dovettero disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Álvaro de Bazán che sembrava avere la peggio.
Alla sinistra turca, al largo, la situazione era ancora poco cruenta ma un po' più complicata.

"El Draque", come gli spagnoli chiamavano Sir Francis Drake, disponeva di sole 32 galee, meno della metà di quelle degli altri tronconi della flotta, e davanti a sé aveva schierate ben 90 galee, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani sul lato opposto dello schieramento, ed oltretutto in un'area molto più ampia di mare aperto.
Quello che gli ottomani ignorano è che le fregate inglesi non sono delle semplici "galeotte", quali sembrano, bensì legni progettati per battaglie navali in ambito oceanico.
Drake, ad un certo momento della battaglia, si sgancia con le sue fregate, facendo vela verso il mare aperto.
Nonostante avesse avuto l'ordine, ugualmente al Barbarigo, di difendere e proteggere il fianco della flotta di Don Álvaro de Bazán, per impedire l'accerchiamento delle sue navi che si trovavano sotto un violento attacco frontale, inaspettatamente spaccò il lato destro dello schieramento cristiano, puntando verso il mare aperto e lasciando aperto un buco che le 32 galee del suo schieramento faticavano nel tentare di chiudere per coprire il fianco destro.
A quel punto, Uluç Ali si insinuò nel varco, pensando che gli inglesi fossero in fuga, per attaccare il fianco destro dello schieramento di Don Álvaro de Bazán. Vedendo le intenzioni di Uluc Alì, la nave ammiraglia dei Cavalieri di Malta al cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell'Ordine, la Fiorenza e la San Giovanni della flotta papale, e la Piemontesa della flotta sabauda, si voltarono per affrontarlo.
Ma a questo punto scattò la strategia del Drake: le fregate inglesi, a differenza delle galee mediterranee, non erano armate con il cannone di corsia, posto a prora, bensì erano state adattate per le necessità della guerra in atlantico. Dotate di due alberi a vele latine e 12 remi semplici, erano armate con alcuni cannoni sui castelli e 20 cannoni sul ponte, 10 per ciascuna murata.
Quando la flottiglia del Drake riuscì ad allinearsi dando il fianco ai turchi, una pioggia di ferro e fuoco si abbatté sulla flotta ottomana, devastandola prima che arrivasse a contatto con il centro dello schieramento cristiano.

Al centro, il comandante in capo ottomano Alì Pascià, già ferito, cadde abbattuto da un'archibugiata. La nave ammiraglia ottomana venne abbordata e, contro il volere di Don Álvaro de Bazán, il cadavere dell'ammiraglio ottomano Alì Pascià viene decapitato e la sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola.
La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei Turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente.
Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Don Álvaro de Bazán riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona ed inviò galee verso tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria: i Turchi avevano 110 galee affondate 130 catturate, 34 galeotte affondate e 18 catturate, inoltre 53.000 uomini tra morti e feriti ed altri 13.000 prigionieri. Inoltre vennero liberati 26.000 cristiani dalla schiavitù ai banchi dei remi.
Gli Ottomani avevano salvato meno di un terzo delle loro navi.
Molti prigionieri ottomani, in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente.

La flotta della lega fece quindi rientro a Napoli.
Nelle città d'occidente la notizia venne accolta in un tripudio di feste e gioia popolare che durarono giorni; a Roma, Venezia e Torino vennero celebrati solenni Te Deum di ringraziamento. A Napoli fu elevata la colonna della vittoria nel posto esatto dove le navi cristiane approdarono. Papa Pio V nel 1572 istituirà la "Festa di Santa Maria della Vittoria", successivamente trasformata nella "Festa del SS. Rosario", per celebrare l'anniversario della storica vittoria ottenuta "per intercessione dell'Augusta Madre del Salvatore, Maria".
La bandiera della nave ammiraglia turca di Mehmet Alì Pascià, presa da due navi pisane, la "Capitana" e la "Grifona", venne custodita a Pisa, nella chiesa dei Cavalieri dell'Ordine Cavalleresco Sacro Militare Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire, fondato da Cosimo I de' Medici granduca di Toscana.

Questa battaglia fu la prima grande vittoria di una flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano ed ebbe anche un'importanza psicologica notevole, in quanto avveniva solo pochi anni dopo la devastante vittoria Austriaca a Szigetvár.
I Turchi infatti, fino a quel momento potevano vantare decenni di travolgente espansione territoriale ai danni dei cristiani d'oriente e dei Balcani.

Le due vittorie cristiane segnarono infatti un punto di svolta importante negli equilibri militari nell'area del Mediterraneo: dopo oltre un secolo di continua espansione turca, che dalla occupazione di Costantinopoli (1453) in poi aveva continuato un'avanzata che pareva ormai inarrestabile (Siria, Arabia, Egitto, Belgrado, Rodi, Ungheria, arrivando persino ad assediare Vienna); le disfatte di Lepanto e Szigetvár rappresentarono una significativa inversione di tendenza, che impedì ai turchi una ulteriore espansione.

Nonostante la sconfitta turca a Lepanto, la scarsa coesione tra i vincitori impedì alle forze alleate di sfruttare appieno la loro vittoria ed ottenere una supremazia duratura sugli Ottomani.
Dal canto suo, l'Impero Ottomano, che pure aveva risentito duramente del colpo, iniziò subito una poderosa opera di ricostruzione della flotta, che si concluse in 6 mesi ma, pur riacquistando la superiorità numerica nei confronti della coalizione cristiana, la marina turca non riuscì a riconquistare la supremazia. Le nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in fretta, tanto che l'ambasciatore veneziano notificò al Senato veneziano che bastavano 70 galee ben armate e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita con legname non stagionato e cannoni mal fusi.
Dopo Lepanto infatti la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grosse battaglie, dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e alla distruzione dei traffici nemici.

La sconfitta, tuttavia, non permise ai Veneziani e all'esercito cristiano di riconquistare l'isola di Cipro che era caduta da appena due mesi in possesso ottomano. Questo anche a causa dell'ostilità delle altre potenze nei confronti della Serenissima che, se troppo forte, avrebbe potuto riprendere una politica egemonica sulla penisola italiana.
La Serenissima fu quindi costretta a firmare un trattato di pace a condizioni poco favorevoli.

La battaglia di Lepanto ebbe anche importanti conseguenze all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le varie Rreggenze barbaresche che governavano il Maghreb in nome del Sultano Ottomano e sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla sua potente flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la Spagna, dopo questa battaglia "rialzarono la testa", guadagnando spazi d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche contro gli interessi del Sultano.

Nel Sacro Romano Impero intanto, ai festeggiamenti per la vittoria cristiana si mescolavano i malumori di Giovanni Andrea Doria, indispettito con Massimiliano II per aver voluto rispettare la tregua trentennale con il Sultano e rifiutare all'Ammiraglio imperiale la partecipazione alla battaglia, anche sotto le sole bandiere della Superba. Massimiliano blandisce il genovese con il titolo di Grand'Ammiraglio dell'Impero, estendendo i poteri militari di Doria anche sulle flotte tedesche e sullo strategico porto imperiale di Trieste, decisione che indispettisce e preoccupa enormemente Venezia.
[Modificato da Xostantinou 19/06/2011 11:37]



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Κωνσταντίνος ΙΑ’ Δραγάσης Παλαιολόγος,
Xρoνoκράτoρ και Koσμoκράτoρ
Ελέω Θεού Βασιλευς και Αυτοκράτορ των Ρωμαίων.





"Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la Fede, la Patria, la Famiglia ed il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la propria vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrifico della mia stessa vita.
So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo...Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra.
Miei signori, miei fratelli, miei figli, l'ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani."

"Ed allora questo principe, degno dell'immortalità, si tolse le insegne imperiali e le gettò via e, come se fosse un semplice privato, con la spada in pugno si gettò nella mischia. Mentre combatteva valorosamente per non morire invendicato, fu infine ucciso e confuse il proprio corpo regale con le rovine della città e la caduta del suo regno.
Il mio signore e imperatore, di felice memoria, il signore Costantino, cadde ucciso, mentre io mi trovavo in quel momento non vicino a lui, ma in altra parte della città, per ordine suo, per compiervi un'ispezione: ahimè ahimè!."

"La sede dell'Impero Romano è Costantinopoli e colui che è e rimane Imperatore dei Romani è anche l'Imperatore di tutta la Terra."

"Re, io mi desterò dal mio sonno marmoreo,
E dal mio sepolcro mistico io ritornerò
Per spalancare la murata porta d'Oro;
E, vittorioso sopra i Califfi e gli Zar,
Dopo averli ricacciati oltre l'Albero della Mela Rossa,
Cercherò riposo sui miei antichi confini."

"Un Costantino la fondò, un Costantino la perse ed un Costantino la riprenderà”